Il 6 marzo scorso Rahman Farazi muore sulla nave Sea Watch 5. Rahman aveva 19 anni, veniva dalla città di Maripur, in Bangladesh.
Rahman muore dopo essere stato soccorso in mezzo al Mediterraneo dalla nave della Ong tedesca Sea Watch che lo recupera in mare in condizioni estremamente critiche a causa dei fumi tossici della benzina che aveva respirato nella stiva della barca partita dalla Libia in cui viaggiava.
Nonostante i ripetuti tentativi di rianimarlo effettuati dall’equipe medica di Sea Watch, Rahman si spegne a bordo della nave, circondato dai 55 sopravvissuti soccorsi e dall’equipaggio che lo hanno visto morire dopo avergli salvato la vita in mare.
Quando Rahman è arrivato nell’ospedale di bordo era già incosciente, non sappiamo da quanto tempo, e le sue condizioni sono apparse subito gravi. Sono state immediatamente avviate le manovre rianimatorie, in particolare la ventilazione con pallone Ambu e ossigeno. Un farmaco per alleviare il dolore è stato somministrato fin da subito perché era evidente una contrazione del viso. I vestiti di Rahman erano fradici d’acqua ed impregnati di carburante ; sono stati rimossi per interromperne al più presto il contatto con la cute ed evitare l’aggravarsi delle ustioni che questa combinazione provoca. L’intenso odore di idrocarburi ha rapidamente invaso l’ospedale. L’equipe medica ha stimato l’età di Rahman intorno a 17 anni, per poter calcolare la dose corretta dei farmaci. Sono state applicate delle coperte riscaldanti e delle borse di acqua calda per combattere l’ipotermia. Molti membri dell’equipaggio, sanitari e non, hanno prestato assistenza in tutti modi. Insieme a Rahman, altri 4 giovani soccorsi, presentavano difficoltà respiratorie e ipotermia e necessitavano di assistenza da parte degli altri sanitari a bordo. Dopo circa 2 ore dal soccorso, quando le loro condizioni si sono stabilizzate, ho potuto dare il cambio al medico che si era preso cura di Rahman fino a quel momento.
Quando si iniziano le manovre rianimatorie in ambito extra-ospedaliero (cioè lontano da un ospedale), per prendere le decisioni più corrette e pianificare una strategia terapeutica, seguire alla lettera il protocollo non è sufficiente, è fondamentale prevedere in quanto tempo il paziente potrà giungere in un reparto di rianimazione attrezzato per le procedure più avanzate. Purtroppo, dopo 2 ore dal soccorso, ancora nessuno aveva idea di quando e dove Rahman avrebbe potuto essere evacuato e preso in carico. Questo ha provocato nei sanitari un senso di insicurezza, di frustrazione e di ineluttabilità. Nonostante i nostri sforzi, le manovre sarebbero state probabilmente insufficienti. A quel punto era evidente che gli organi nobili (il cervello e il cuore) di Rahman iniziavano a soffrire e a cedere. Dopo oltre 3 ore, tutti insieme, abbiamo deciso di prestare gli ultimi tentativi, fino a quando non è stato possibile fare di più, se non alleviare ulteriormente il dolore del nostro giovane paziente, di cui ancora non conoscevamo il nome.
Le cure a Rahman non si sono limitate a questo; dopo che il suo cuore si é fermato, 2 membri dell’equipaggio hanno ricomposto il corpo e lo hanno preparato perché potesse affrontare le ore o i giorni di viaggio che ancora lo separavano dal porto di sbarco, in quel momento ancora sconosciuto.“
Chiara, medica a bordo della Sea Watch
Vista la gravità della sua condizione, una richiesta di evacuazione immediata per Rahman era stata inviata alle autorità italiane ma senza esito positivo.
Quando abbiamo saputo della morte di Rahman, abbiamo discusso su come dirlo agli altri sopravvissuti a bordo. Dopo un momento di lutto collettivo, abbiamo iniziato a cercare indizi per identificare questa persona. Non conoscevamo né il suo nome, né la sua nazionalità, né tantomeno la sua età. Gli altri sopravvissuti ci hanno detto che Rahman viaggiava da solo, che nessuno lo conosceva, ma che probabilmente era del Bangladesh. Abbiamo anche cercato indizi tra i suoi effetti personali, ma non abbiamo trovato nulla. Eravamo disperati, perché a bordo non c’era nulla che potesse dare un’identità a questa persona deceduta. In coordinamento con l’équipe medica, abbiamo scattato delle foto del corpo, nella speranza che questo potesse aiutare in seguito nel processo di identificazione”.
Sophia, protection officer a bordo della Sea Watch
Al momento dello sbarco, il suo corpo viene portato nell’obitorio del cimitero comunale di Pozzallo dove resterà per lungo tempo senza nome: “non identificato” è la dicitura che inizialmente compare sul suo certificato di morte.
Nel frattempo la società civile solidale si muove alle due sponde: alcuni membri dell’equipaggio di Sea Watch si attivano e contattano Mem.Med, Asgi, ricercatorə attivistə e altre attrorə della società civile. Insieme, si invia una lettera alle autorità competenti, tra cui la Procura di Agrigento, il comune di Pozzallo, il Commissario Straordinario del Governo per le Persone Scomparse, raccomandando il rispetto di alcune procedure regolamentate dalle normative nazionali e internazionali, tra cui il prelievo del DNA, la raccolta dati, la sepoltura degna, il rispetto del rito religioso secondo il credo di appartenenza, il rimpatrio della salma ove richiesto.
Nel frattempo, delle foto di Rahman che ritraggono il viso e il corpo, rielaborate secondo una procedura sperimentale sviluppata dall’INSA (Institut National Des Sciences Appliquées) di Touluse, vengono fatte circolare all’interno della comunità nazionale del Bangladesh in Italia, nel tentativo di ritrovare la famiglia della persona deceduta. Attraverso alcuni rappresentanti della comunità bengalese e straniera di Livorno, viene rintracciata la famiglia, la quale chiede di essere aiutata nel processo di identificazione e rimpatrio della salma.
Sono orgoglioso che con il nostro intervento siamo riusciti ad aiutare a trovare la famiglia di Rahman. E sono molto fiero di aver lavorato insieme alle associazioni che supportano la ricerca delle persone scomparse e il contatto con le famiglie, è una cosa molto importante.
Polas, rappresentante comunità stranieri a Livorno
La famiglia si mette in contatto con le associazioni. Nello specifico, è Rasel, il fratello maggiore di Rahman, che vuole verità e giustizia per suo fratello: nomina l’avvocata di Mem.Med come sua rappresentante per poter essere supportato nell’accesso alle procedure di identificazione e rimpatrio del corpo.
Rasel ha una storia simile a suo fratello, ma con esito diverso: ha attraversato il mare ed è giunto Europa, e vive e lavora a Bergamo. Appena appresa la notizia lascia la città in cui vive e arriva in Sicilia in una domenica di inizio aprile: vuole riprendersi personalmente il corpo di Rahman.
A Palermo si incontra con alcune rappresentanti di Mem.Med e si parte insieme verso Agrigento per recarsi presso la Procura, l’autorità competente nel caso in questione. Dopo ore di attesa nei corridoi del Tribunale di Agrigento, a Rasel viene detto di tornare a casa perché non sarebbe stato ricevuto dalla Pm. Rasel riparte e torna nel nord Italia.
Dopo una comunicazione complessa e a più riprese con la Procura di Agrigento, a distanza di settimane, le autorità contattano l’avvocata di Rasel, affidando a lei e all’associazione che rappresenta il compito di effettuare un’identificazione con il familiare: il riconoscimento avverrà attraverso l’esibizione visiva di alcune foto della salma, contenute nel fascicolo dell’inchiesta e in particolare nella sezione relativa all’autopsia.
Alcune rappresentanti di Mem.Med partono per Milano per effettuare l’identificazione: nelle stanze dell’associazione Naga, a Rasel vengono mostrate alcune foto della salma fornite dalla Procura. Rasel non ha dubbi: riconosce il corpo, si tratta di suo fratello.
Attraverso un verbale viene formalizzata l’identità di Rahman.
Un numero, non sei.
Non sei la vita sezionata in frammenti. Martirizzata e taciuta.
Non sei.
La mortificazione dell’umano oppressore
La sua ineluttabile violenza.
Non sei.
Gli uffici della morte,
la meccanica dell’esistere
Normale procedura d’ufficio.
Rilievi, autopsia, numero del procedimento penale.
Prego, torni da dove è venuto.
Fascicolo fotografico.
Fronte e retro.
bianco e nero.
Un soffio di gelo a pagina 4 a pagina 6, a pagina 11 e 12.
inchiostro sbiadito su carta d’ufficio.
Il tuo corpo,
la chirurgica politica della morte.
Il tuo corpo,
ha i segni di chi non ti ha voluto vedere,
di chi ti ha lasciato morire.
Ma tu ci sei.
In un giorno di aprile,
nel nord di un mondo che ti ha chiuso gli occhi prima di arrivare.
In un giorno di aprile,
seduti, insieme, a tracciare il tuo volto come un mosaico.
Formulare il tuo nome,
negare l’assenza.
Tu ci sei.
Lo sguardo di tuo fratello, lo stesso, sei.
Il suo viaggio in terra e in mare. La stessa ricerca di libertà. Tu sei.
Riemergi, esisti.
Tu ci sei.
Questa Storia porta anche il tuo nome.
Silvia, Mem.Med Memoria Mediterranea
Nonostante sia un momento di estremo dolore, questo atto dona un po’ di conforto e di sollievo alla famiglia: Rahman è stato ritrovato, il nome, di cui era stato privato dal regime di frontiera e dai suoi dispositivi disumanizzanti, gli è stato restituito.
Questo non basta però a poter rimpatriare il corpo, come da volontà di Rasel e della famiglia che in Bangladesh attende di poter riavere il loro caro.
Passa un mese e mezzo: la trafila burocratica per ottenere il certificato di morte e le autorizzazioni per spostare la salma è lunga e accidentata, nonostante il Sindaco e alcune assessore del Comune di Pozzallo (RG) si mostrano estremamente collaborativi e sensibili al caso, ritardando la sepoltura e rispettando fino alla fine le volontà espresse dalla famiglia bengalese.
La procedura del rimpatrio della salma è estremamente onerosa, non solo per le questioni burocratiche e logistiche, ma anche per quelle economiche. Una spesa che la famiglia ha potuto sostenere anche grazie alle donazioni di associazioni solidali e al contributo dell’Ambasciata del Bangladesh.
Il giorno 6 giugno il corpo di Rahman lascia la camera mortuaria del cimitero di Pozzallo con un nome, una data di nascita, un’identità e un indirizzo di ritorno: quello della sua residenza in Bangladesh.
Il giorno 8 giugno, la sua salma arriva a Madaripur, città natale di Rahman, dove, a distanza di 4 mesi dal decesso, la famiglia finalmente può commemorare la sua morte.
“Oltre ad una morte ingiusta come questa, che già di per sé è una cosa dolorosa e violenta per la famiglia, abbiamo sofferto per come ha agito il sistema che dovrebbe occuparsi dell’identificazione e del rimpatrio del corpo. E’ stato tutto assurdo. Voglio dire che almeno in mezzo a questa assurdità ho trovato la solidarietà di tante persone che ci hanno supportato.”
Rasel, fratello di Rahman Farazi
Mem.Med Memoria Mediterranea